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lunedì 3 giugno 2013

REPORTAGE DALLA TURCHIA IN RIVOLTA

Testo di Lorenzo Mazzoni e Gianluca D'Ottavio


È iniziato tutto con la decisione della municipalità di cancellare dalla faccia della terra il Gezi Parkı, l’unica zona verde intorno a piazza Taksim, uno dei cuori pulsanti di Istanbul, per farci un centro commerciale. I manifestanti, qualche giorno, fa circa duemila persone, si sono ritrovati al parco per contestare questa decisione. Tende, cori, balli, presenza di artisti, figure della cultura, politici dell'opposizione. Un clima pacifico e sereno. Poi, all’alba del terzo giorno di occupazione, alle cinque di mattina, poliziotti in divisa e poliziotti in borghese sono arrivati nel parco e hanno sgomberato il campo, caricato le persone che vi risiedevano, utilizzato metodi da controguerriglia manco si fosse trattato delle frange più estreme delle manifestazioni del Primo Maggio o degli ultras del Beşiktaş. Un bello spettacolo.

È iniziato tutto a Gezi Parkı quest'atto di repressione poliziesca, ma la protesta era nell'aria, si covava da tempo. Gli alberi sono stati solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Così si contesta? Si contesta la lenta islamizzazione voluta dal governo, si contestano le politiche conservatrici dell’AKP del primo ministro Erdoğan e del suo rappresentante in città, il sindaco Topbaş, fra cui la legge contro la vendita degli alcolici dopo le dieci dì sera nei supermercati e la campagna contro la moralizzazione dei comportamenti pubblici. Si contestano i metodi violenti della polizia che hanno creato un moto di solidarietà fra la popolazione, in particolare fra i giovani, aiutati dai social media quali twitter e facebook. In due giorni la protesta è diventata oceanica, milioni di persone sono scese in piazza, giovani, vecchi, bambini, attori, parlamentari, sempre pacificamente, ci sono stati scontri con la polizia fino a ieri solo ed esclusivamente nelle zone di Taksim e di Beşiktaş.

La polizia ha in seguito deciso saggiamente di lasciare il campo e da ieri sera sabato 1 giugno la piazza di Taksim è sede di una manifestazione pacifica senza nessun intervento della polizia e quindi senza nessun tipo di scontro o tensione. Gli scontri sono quindi durati due giorni e sono al momento terminati, le zone della città coinvolte sono comunque limitate, ad esempio a Sultanahmet, Eminönü, ma anche a Ortaköy e Üsküdar, non c’è stato il minimo problema e anzi sarebbe stato difficile accorgersi di quello che stava succedendo. Ciò che è avvenuto qui non ha niente a che vedere con ciò che è avvenuto in Egitto, in Libia, in Tunisia. La Turchia è sempre stato un paese fuori dagli schemi, qua c’è una democrazia, non c’è una dittatura, c’è al potere un partito che ha un grande consenso popolare dato che ha ottenuto negli ultimi anni degli incredibili successi economici, ha ottenuto il 54% dei voti alle ultime elezioni e forte del suo consenso pensa che abbia il diritto di fare tutto quello che vuole, ma non è così, e chi non è d’accordo protesta. Questa protesta non ha niente di diverso da altre proteste che avvengono e sono avvenute in Europa negli ultimi tempi, nella Spagna degli indignados, oggi stesso nella Francoforte di Blockupy. Si tratta di movimenti di giovani che vogliono solo un mondo più giusto, più libertà, meno cemento, più cultura, la differenza in questi casi la fa solo la gestione del dissenso da parte delle autorità. Se le autorità reagiscono in maniera scomposta, il popolo si unisce ancora di più, e tutto si trasforma in protesta contro il governo.

Alle 19.00 di venerdì 31 maggio si sono ritrovati in tanti a piazza Taksim. Il CHP, il MHP, i sindacati, le forze della sinistra, le correnti vicine all’Islam anticapitalista, gli ultras dei maggiori club della città, per la prima volta coalizzati per una protesta sociale (che come orario di ritrovo hanno utilizzato le date di fondazione dei club: Beşiktaş 19.03, Galatasary 19.05, Fenerbahçe 19.07), anarchici, intellettuali, artisti, e tanti, tantissımi semplici cittadini. La risposta delle forze dell’ordine è stata violenta e sproporzionata. Cariche, idranti, lacrimogeni, tanti, troppi lacrimogeni, sparati anche dentro la metropolitana e che hanno intossicato i passanti anche in aree lontane dagli scontri. Decine di feriti, fra cui anche turisti. Ovunque, per tutto il centro e’ vera e propria guerriglia. Su Istiklal Caddesi, la lunga strada pedonale, luogo del passeggio per migliaia di persone, la polizia ha bloccato il passaggio e anche qui ha usato, indiscriminatamente, i lacrimogeni per disperdere le persone. I lacrimogeni piovono anche dagli elicotteri delle forze dell’ordine. Ma la protesta non si placa. Tantissima solidarietà, soprattutto dai commercianti, che hanno aperto i negozi per dare rifugio alle persone, medici volontari, infermieri improvvisati. Il grido si alza in cielo: “che il governo si dimetta”. E lo scandiscano migliaia di persone. La risposta e’ una carica dopo l’altra, idranti, lacrimogeni.
Uscire dalla zona del centro senza intossicarsi e senza incappare in qualche manganello è un’impresa. A Tophane degli scalmanati lanciano bottiglie e sassi contro i manifestanti. Gıunti a casa a Beşiktaş siamo accolti da un suono lungo e persistente: alle finestre tante persone picchiano cucchiai sulle pentole. Per strada la gente batte le mani. Le luci degli appartamenti si accendono e si spengono. E sempre quel grido, collettivo: “che il governo si dimetta”. La protesta delle pentole è nata a Kurtuluş, quartiere a prevalenza armena, ma si e’ sparsa in tutta la città. Nella notte di Istanbul il suono metallico si propaga, sempre più forte, inesorabile, in tutti i quartieri. In strada una fiumana di persone, e sono le tre del mattino. E la protesta si sta spandendo a macchia d’olio in tutta la Turchia: manifestanti sono scesi in piazza anche ad Ankara, Edirne, Urfa e nelle maggiori città della nazione.

Il 1 giugno la protesta è proseguita, manifestanti in più di 90 città. A Istanbul la polizia, alle 16.00, abbandona piazza Taksim che viene invasa da migliaia e migliaia di manifestanti, è una fiumana inarrestabile che si ingigantisce sempre più. Canti, cori. Un'energia straordinaria, una città che si riprende le proprie strade. I negozi di Istiklal sono devastati, così come le banche. La fiumana inarrestabile invade tutte le zone intorno alla piazza. Il parco viene di nuovo occupato dai manifestanti. Arrivano voci di scontri violenti a Beşiktaş, la polizia usa gas orange, un gas altamente tossico che provoca malori, nausea, problemi alla respirazione. Lo usa per quattro ore, dentro il centro abitato. Ma la protesta prosegue. La gente si riversa verso Beşiktaş, gli scontri proseguono. La notte è lunga, la notte è fatta di festa e di lutto.

Domenica 2 giugno inizia a trapelare la notizia di due morti accertati, più di mille feriti, una città completamente ripulita grazie anche ai volontari: straordinari ragazzi che con i guanti raccolgono l'immondizia lasciata dopo le proteste. La gente si riversa ancora a Taksim. Forse c'è più gente del sabato. Il concentramento è più strutturato, ci sono gli stendardi e le bandiere di tutta la sinistra parlamentare ed extra-parlamentare. Iniziano i comizi. Migliaia di persone intonano “Bella Ciao” in versione turca. Arrivano anchje i kemalisti, i curdi. Tanti, tantissimi semplici cittadini. Una grande festa di tolleranza, voglia di cambiamento, democrazia. Per Istiklal parte un corteo del Partito dei Lavoratori, dalle strade laterali continua ad arrivare gente, per ultimi quelli del CHP, che sono accolti con applausi. Poi piano piano, verso sera, la piazza si svuota, anche se i cortei spontanei e concentramenti non autorizzati continuano. Arriva di nuovo voce di scontri a Beşiktaş, ancora il gas, gas dentro gli appartamenti, nelle strade, nei negozi. Ancora la brutale forza poliziesca all'opera. Ma l'intero quartiere risponde. Questa volta la battaglia delle pentole coinvolge tutti e si propaga, come venerdì notte, di quartiere in quartiere. Sono migliaia le pentole che vengono suonate, migliaia le luci che si accendono e si spengono. Torna la notte. Nessuno di noi sa come andrà a finire. Indubbio che stiamo vivendo, probabilmente, un momento storico fondamentale.

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